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mercoledì 16 luglio 2014

La realtà è peggiore del romanzo “1984″ di George Orwell









Di John Pilger

L’altra sera ho visto “1984″ di George Orwell in un teatro di Londra. Sebbene venisse sbandierata l’interpretazione contemporanea, il monito di Orwell riguardo al futuro veniva presentato come un pezzo storico: remoto, innoquo, quasi rassicurante. Era come se Snowden non avesse rivelato niente, se il Grande Fratello non fosse ora una spia digitale, se lo stesso Orwell non avesse mai detto: “Per essere corrotti dal totalitarismo non occorre vivere in un paese totalitario.”

 


Acclamata dai critici, l’abile regia rispecchiava la cultura e la politica del nostro tempo. Quando si accesero le luci, il pubblico stava già uscendo. Sembravano indifferenti, o forse attratti da altre distrazioni. “Che pippa mentale.” ha commentato una ragazza accendendo il suo cellulare.

Mentre le società avanzate vengono de-politicizzate, i cambiamenti sono sia sottili che spettacolari. Nei discorsi di tutti i giorni il linguaggio politico viene capovolto, come profetizzato in 1984. “Democrazia” è ora una figura retorica. La pace è “guerra perpetua”. “Globale” è imperiale. Il concetto di “riforma”, un tempo foriero di speranze, ora significa aggressione, perfino distruzione. “Austerità” è l’imposizione del capitalismo estremo ai poveri e il dono del socialismo ai ricchi: un sistema ingegnoso in cui la maggioranza paga il debito dei pochi.




Nelle arti, l’ostilità verso la verità politica è un articolo di fede borghese. “Il periodo rosso di Picasso,” recita un titolo dell’Observer, “e perché la politica non fa buona arte”. Questo in un giornale che ha promosso il bagno di sangue in Iraq presentandolo come una crociata liberale. L’opposizione di Picasso al fascismo durante tutta la sua vita è una nota a margine, così come il radicalismo di Orwell è sfumato nel premio che si è appropriato del suo nome.

Alcuni anni fa Terry Eagleton, allora professore di letteratura inglese all’università di Manchester, considerava che “per la prima volta negli ultimi 200 anni non c’è un eminente poeta, drammaturgo o novellista britannico pronto a mettere in questione le fondamenta del modo di vita occidentale”. Nessuna Shelley parla dei poveri, nessun Blake di sogni utopici, nessun Byron condanna la corruzione della classe dominante, né Thomas Carlyle o John Ruskin rivelano il disastro morale del capitalismo. William Morris, Oscar Wilde, H.G. Wells, George Bernard Shaw non hanno equivalenti al giorno d’oggi. Harold Pinter fu l’ultimo a far sentire la sua voce. Tra le voci insistenti del femminismo da consumo, nessuna fa eco a Virginia Woolf, che descrisse “l’arte di dominare altre persone… di governare, uccidere, acquisire terre e capitali”.






Al National Theatre, un nuovo spettacolo, “Gran Bretagna”, fa satira sullo scandalo delle intercettazioni telefoniche che ha visto alcuni giornalisti processati e condannati, compreso un ex redattore di News of the World di Rupert Murdoch. Descritto come “una farsa mordente che inchioda l’intera cultura dei media incestuosi e la ridicolizza senza pietà”, ha come bersagli i “beatamente divertenti” personaggi della stampa scandalistica britannica. Va benissimo. E che ne diciamo dei media non scandalistici, che si considerano rispettabili e credibili e invece svolgono il ruolo parallelo di braccio dello stato e del potere aziendale, come nella promozione di guerre illegali?

L’inchiesta Leveson sulle intercettazioni telefoniche ha fornito uno scorcio su questo argomento tabù. Tony Blair stava fornendo prove, lamentando a Sua Signoria le molestie dei tabloid su sua moglie, quando venne interrotto da una voce proveniente dalla galleria pubblica. David Lawley-Wakelin, un regista, chiedeva che Blair fosse arrestato e perseguito per crimini di guerra. Ci fu una lunga pausa: lo shock della verità. Lord Leveson balzò in piedi, ordinò che colui che diceva la verità fosse cacciato fuori e si scusò con il criminale di guerra. Lawley-Wakelin fu perseguito; Blair rimase libero.


I complici di lunga data di Blair sono più rispettabili di chi intercetta le telefonate. Quando la presentatrice artistica della BBC, Kirsty Wark, lo intervistò riguardo al decennale della sua invasione dell’Iraq, gli regalò un momento che poteva solo sognare: gli permise di angosciarsi della sua “difficile” decisione presa sull’Iraq, anziché chiamarlo a rispondere del suo crimine epico. Ciò ispirò la processione di giornalisti della BBC, che nel 2003 dichiarò che Blair poteva sentirsi “discolpato”, e la successiva “influente” serie della BBC, “Gli anni di Blair”, per la quale David Aaronovitch fu scelto come scrittore, presentatore e intervistatore. Quale valletto di Murdoch che aveva promosso gli attacchi militari in Iraq, Libia e Siria, Aaronovitch adulò da esperto.
 
Kirsty Wark,presentatrice della BBC



Dall’invasione dell’Iraq -un esempio di atto di aggressione non provocato, che l’accusatore di Norimberga Robert Jackson definì “il crimine internazionale supremo, diverso da altri crimini di guerra solo perché contiene in se stesso l’intero male dell’insieme”- a Blair e al suo portavoce e complice principale, Alastair Campbell, è stato concesso ampio spazio nel Guardian per riabilitare la loro reputazione. Descritto come una “stella” del partito laburista, Campbell ha cercato la comprensione dei lettori per la sua depressione e mostrato i suoi interessi, ma non il suo attuale incarico di consigliere, sotto Blair, della tirannia militare egiziana.

Mentre l’Iraq viene smembrato in conseguenza dell’invasione Blair/Bush, il Guardian titola: “Rovesciare Saddam era giusto, ma ce ne siamo andati troppo presto”. Questo era un articolo del 13 giugno scritto da un ex funzionario di Blair, John McTernan, che aveva lavorato anche per il dittatore Iyad Allawi, installato dalla CIA. Invocando una seconda invasione del paese che il suo ex padrone aveva contribuito a distruggere, non menzionava la morte di almeno 700.000 persone, la fuga di 4 milioni di rifugiati e i conflitti settari in una nazione un tempo fiera della sua tolleranza comunitaria.
“Blair rappresenta la corruzione e la guerra”, ha scritto l’articolista radicale del Guardian, Seumas Milne, in un vivace pezzo del 3 luglio. Questo viene chiamato dagli specialisti “bilanciamento”. Il giorno successivo, il giornale ha pubblicato un annuncio pubblicitario a tutta pagina per un bombardiere stealth americano. Su di un immagine minacciosa del bombardiere c’erano le parole: “L’F-35. GRANDE per la Bretagna”. Quest’altra rappresentazione di “corruzione e guerra” costerà ai contribuenti britannici 1,3 miliardi di sterline, mentre i modelli suoi predecessori hanno assassinato la gente nei paesi in via di sviluppo.

In un villaggio dell’Afghanistan, abitato dai più poveri dei poveri, filmai Orifa, inginocchiata sulla tomba di suo marito, Gul Ahmed, tessitore di tappeti, altri 7 membri della sua famiglia, compresi 6 bambini, e due bambini che erano stati uccisi nella casa adiacente. Una bomba “di precisione” da 250kg era caduta direttamente sulla loro piccola casa di fango, pietra e paglia, lasciando un cratere largo 15 metri. Lockheed Martin, ditta costruttrice dell’aereo, ha avuto l’onore di figurare nell’annuncio del Guardian.

L’ex segretaria di stato e aspirante presidente degli Stati Uniti, Hillary Clinton, è comparsa di recente su “Women’s Hour” della BBC, la quintessenza della rispettabilità dei media. La conduttrice, Jenni Murray, ha presentato la Clinton come un’icona di successo femminile. Non ha ricordato agli ascoltatori la bestemmia della Clinton secondo cui l’Afghanistan era stato invaso per “liberare” le donne come Orifa. Non ha chiesto nulla alla Clinton riguardo alla campagna di terrore della sua amministrazione che usava droni per uccidere donne, uomini e bambini. Nessuna menzione della minaccia della Clinton, mentre si proponeva come prima presidentessa donna, di “eliminare” l’Iran, e niente riguardo al suo supporto per la sorveglianza di massa illegale e la caccia agli informatori.





La Murray in effetti ha posto una domanda scottante: la Clinton aveva perdonato Monica Lewinsky per aver avuto una storia con suo marito? “Il perdono è una scelta,” ha risposto la Clinton, “per me era assolutamente la scelta giusta.” Ciò richiamava alla mente gli anni ’90, quelli dello “scandalo” Lewinsky. Il presidente Bill Clinton allora stava invedendo Haiti e bombardando i Balcani, l’Africa e l’Iraq. Stava anche distruggendo le vite di bambini iracheni: l’Unicef riportò la morte di mezzo milione di bimbi iracheni al di sotto dei 5 anni, in conseguenza di un embargo guidato da USA e Gran Bretagna.
I bambini per i media non erano persone, così come le vittime di Hillary Clinton nelle invasioni che ha supportato e promosso: Afghanistan, Iraq, Yemen, Somalia, per i media non sono persone. La Murray non ha fatto nessuna menzione di loro. Sul sito della BBC compare una foto sua e della sua distinta ospite, raggiante.
In politica così come nel giornalismo e nelle arti, sembra che il dissenso un tempo tollerato nei media “mainstream” sia regredito a dissidenza: un metaforico sottoterra. Quando cominciai la mia carriera a Fleet Street, negli anni ’60, era accettabile criticare il potere occidentale come forza rapace. Leggete i celebri resoconti di James Cameron sull’esplosione della bomba H nell’atollo di Bikini, la guerra barbarica in Corea e il bombardamento americano del Vietnam del Nord. La grandiosa illusione di oggi è di essere in un’era dell’informazione mentre, in verità, viviamo in un’era dei media in cui l’incessante propaganda aziendale è insidiosa, contagiosa, efficace e liberale.


Nel suo saggio del 1859, “Sulla libertà”, a cui i moderni liberali porgono omaggio, John Stuart Mill scrisse: “Il dispotismo è una forma di governo legittima nel trattare con i barbari, purché il fine sia il loro miglioramento e i mezzi siano giustificati dall’effettivo ottenere quel fine.” I “barbari” erano vaste porzioni di umanità da cui era richiesta “obbedienza implicita”. “E’ un mito simpatico e conveniente che i liberali siano pacifisti e i conservatori guerrafondai”, scrisse lo storico Hywel Williams nel 2001, “ma l’imperialismo del modo di vita liberale potrebbe essere più pericoloso per via della sua natura aperta: la sua convinzione di rappresentare una forma di vita superiore.” Aveva in mente un discorso di Blair in cui l’allora primo ministro prometteva di “riordinare il mondo intorno a noi” secondo i suoi “valori morali”.
 
Richard Falk, rispettata autorità in campo di diritto internazionale e inviato speciale ONU in Palestina, una volta ha parlato di “uno scudo legale/morale autoreferenziale e unilaterale, con immagini positive di valori occidentali e di innocenza presentata in pericolo, che giustifica una campagna di sfrenata violenza politica.” E’ “così largamente accettata da essere praticamente incontrastabile”.

Il mandato e l’appoggio gratificano i guardiani. Su BBC Radio 4, Razia Iqbal ha intervistato Toni Morrison, la premio Nobel afro-americana. La Morrison si chiedeva come mai la gente fosse “così arrabbiata” con Barack Obama, che era “figo” e desiderava costruire “una forte economia e sanità”. La Morrison era fiera di aver parlato al telefono con il suo eroe, che aveva letto uno dei suoi libri e l’aveva invitata alla sua inaugurazione.


Né lei né la sua intervistatrice hanno menzionato le 7 guerre di Obama, compresa la sua campagna del terrore con i droni, nella quale sono state assassinate intere famiglie, i loro soccorritori e chi li piangeva. Quello che sembrava importare era che una uomo di colore “che parlava in modo raffinato” fosse salito ai livelli massimi di potere. In “The Wretched of the Earth” (Gli abietti della Terra) Frantz Fanon scrisse che la “missione storica” dei colonizzati era di fungere da “cinghia di trasmissione” per coloro che governavano e opprimevano. Ai nostri giorni, l’impiego delle differenze etniche nei sistemi di potere e propaganda occidentali è visto come essenziale. Obama ne è l’epitomo, sebbene il gabinetto di George W. Bush -la sua banda di guerrafondai- fosse il più multirazziale nella storia presidenziale.




Mentre la città irachena di Mosul veniva presa dai jihadisti dell’ISIS, Obama ha affermato “Il popolo americano ha fatto investimenti e sacrifici enormi per dare agli iracheni l’opportunità di forgiare un destino migliore.” Quanto è “figa” questa bugia? Com’era “raffinato” il discorso di Obama all’accademia militare di West Point il 28 maggio. Indirizzando il suo discorso sullo “stato del mondo” a quanti “assumeranno la leadership americana” in tutto il mondo, Obama ha detto “Gli Stati Uniti useranno la forza militare, unilateralmente se necessario, quando lo richiedono i nostri interessi cruciali. L’opinione internazionale ha importanza, ma l’America non chiederà mai il permesso…”

Ripudiando il diritto internazionale e i diritti delle nazioni indipendenti, il presidente americano si arroga una divinità basata sulla potenza della sua “nazione indispensabile”. E’ un messaggio famigliare di impunità imperiale, sebbene sempre corroborante da sentire. Evocando l’ascesa del fascismo negli anni ’30, Obama ha affermato “Credo nell’eccezionalismo americano con ogni fibra del mio essere”. Lo storico Norman Pollack scrisse: “A chi faceva il passo dell’oca sostituiamo l’apparentemente più innoqua militarizzazione della cultura totale. E al posto del leader magniloquente abbiamo il riformatore mancato, allegramente al lavoro, che pianifica ed esegue assassinii mentre sorride tutto il tempo.”

A febbraio gli USA hanno montato uno dei loro colpi di stato “colorati” contro il governo eletto dell’Ucraina, sfruttando le genuine proteste contro la corruzione a Kiev. La consigliera alla sicurezza nazionale di Obama, Victoria Nuland, ha selezionato personalmente il leader del “governo provvisorio”. Lo ha soprannominato “Yats”. Il vice presidente Joe Biden è arrivato a Kiev, così come il direttore della CIA John Brennan. Le truppe d’assalto per il loro putsch erano fascisti ucraini.


Per la prima volta dal 1945, un partito neonazista apertamente antisemita controlla aree chiave del potere statale in una capitale europea. Nessun leader occidentale ha condannato questo revival del fascismo. [...] Dal collasso dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno circondato la Russia con basi militari, bombardieri nucleari e missili come parte del loro progetto di allargamento della NATO. Rinnegando una promessa fatta dal presidente sovietico Mikhail Gorbachev nel 1990, secondo cui la NATO non si sarebbe espansa “un centimetro ad est”, la NATO di fatto ha occupato militarmente l’Europa orientale. Nell’ex Caucaso sovietico, l’espansione della NATO è il più grande accumulo militare dalla seconda guerra mondiale.

Un piano di azione per l’adesione alla NATO è il dono di Washington al regime di Kiev. Ad agosto l’operazione “Tridente rapido” metterà truppe americane e britanniche sul confine russo dell’Ucraina, e “Brezza di mare” invierà navi da guerra statunitensi a distanza di avvistamento dai porti russi. Immaginate la reazione se questi atti di provocazione, o intimidazione, venissero compiuti ai confini americani.
Nel reclamare la Crimea -che Nikita Krushev staccò illegalmente dalla Russia nel 1954- i russi si sono difesi come hanno fatto per quasi un secolo. Più del 90% della popolazione di Crimea ha votato per restituire il territorio alla Russia. La Crimea è sede della flotta del Mar Nero, e la sua perdita sarebbe una questione di vita o di morte per la marina russa, e un bottino per la NATO. Confondendo i partiti guerrafondai a Washington e Kiev, Vladimir Putin ha ritirato le truppe dal confine ucraino ed esortato i russi etnici in Ucraina orientale ad abbandonare il separatismo.
 

In modo orwelliano, in occidente ciò è stato invertito nella “minaccia russa”. Hillary Clinton ha paragonato Putin a Hitler. Senza ironia, commentatori della destra tedesca hanno fatto altrettanto. Nei media, i neonazisti ucraini vengono definiti eufemisticamente “nazionalisti” o “ultra-nazionalisti”. Quello che temono è che Putin sta abilmente cercando una soluzione diplomatica, e potrebbe avere successo. Il 27 giugno, in risposta all’ultima conciliazione di Putin -la sua richiesta al parlamento russo di ritirare l’autorizzazione ad intervenire in Ucraina a salvaguardia dei russi etnici- il segretario di stato John Kerry ha emesso un altro dei suoi ultimatum. La Russia deve “agire nelle prossime ore, letterlamente” per porre fine alla rivolta in Ucraina orientale. Nonostante Kerry sia ampiamente riconosciuto come un buffone, il vero scopo di questi “avvertimenti” è di attribuire alla Russia lo stato di paria e di sopprimere le notizie sulla guerra del regime di Kiev al proprio popolo.
 

Un terzo della popolazione dell’Ucraina è russofona e bilingue. Da tempo desiderano una federazione democratica che rifletta la diversità etnica ucraina e sia autonoma e indipendente da Mosca. La maggior parte non è né “separatista” né “ribelle”, ma composta da cittadini che vogliono vivere in sicurezza nella loro patria. Il separatismo è una reazione agli attacchi della giunta di Kiev contro di loro, che hanno causato la fuga di 110.000 (stima ONU) rifugiati verso la Russia. Generalmente, donne e bambini traumatizzati.
Come i bambini iracheni vittime dell’embargo, e le donne e ragazze “liberate” dell’Afghanistan, terrorizzate dai signori della guerra della CIA, queste popolazioni dell’Ucraina per i media occidentali non sono persone; la loro sofferenza e le atrocità commesse contro di loro vengono minimizzate o taciute. I media mainstream occidentali non fanno percepire la dimensione dell’assalto del regime. Ciò non è senza precedenti. Leggendo di nuovo il capolavoro di Phillip Knightley, “La prima vittima: il corrispondente di guerra come eroe, propagandista e creatore di miti”, ho rinnovato la mia ammirazione per Morgan Philips Price del Manchester Guardian, l’unico reporter occidentale a restare in Russia durante la rivoluzione del 1917 e a riportare la verità di una disastrosa invasione degli alleati occidentali. Imparziale e coraggioso, Philips Price da solo disturbò quello che Knightley chiama un “oscuro silenzio” anti-russo in occidente.

Il 2 maggio, a Odessa, 41 russi etnici furono bruciati vivi nella sede dei sindacati, mentre la polizia stava a guardare. Ci sono prove video orripilanti. Il leader di Settore Destro Dmytro Yarosh salutò il massacro come “un altro giorno luminoso nella nostra storia nazionale”. Nei media americani e britannici, ciò venne riportato come una “tragedia opaca”, conseguenza di “scontri” tra “nazionalisti” (neonazisti) e “separatisti” (le persone che raccoglievano le firme per il referendum sull’Ucraina federale). Il New York Times lo seppellì, avendo liquidato come propaganda russa gli avvertimenti sulle politiche fasciste e antisemite dei nuovi agenti di Washington. Il Wall Street Journal condannò le vittime -”Mortale incendio ucraino probabilmente innescato dai ribelli, dice il governo”. Obama si congratulò con la giunta per la sua “moderazione”.
 


 Alcune immagini della strage di Odessa,dove 41 russi etnici sono stati bruciati vivi nella sede dei sindacati.








Il 28 giugno, il Guardian dedicò quasi una pagina alle dichiarazioni del “presidente” del regime di Kiev, l’oligarca Petro Poroshenko. Di nuovo venne applicata la regola dell’inversione orwelliana. Non c’era alcun colpo di stato; nessuna guerra contro la minoranza ucraina; la colpa di tutto era dei russi. “Vogliamo modernizzare il mio paese” disse Poroshenko. “Vogliamo introdurre libertà, democrazia e valori europei. A qualcuno questo non piace. A qualcuno non piaciamo per questo.”

Secondo questo resoconto, il reporter del Guardian, Luke Harding, non mise in questione tali affermazioni né menzionò l’atrocità di Odessa, gli attacchi aerei e di artiglieria del regime sulle aree residenziali, l’uccisione e il rapimento di giornalisti, l’incendio di un giornale di opposizione e la sua minaccia di “liberare l’Ucraina dalla feccia e dai parassiti”. Il nemico sono i “ribelli”, i “militanti”, gli “insorti”, i “terroristi” e gli agenti del Cremlino. Ripensate ai fantasmi del Vietnam, del Cile, di Timor Est, dell’Africa meridionale, dell’Iraq; notate le stesse etichette. La Palestina è la calamita di questo immutevole inganno. L’11 luglio, in seguito all’ultimo massacro israeliano a Gaza -80 persone, compresi 6 bambini in una famiglia-, equipaggiato dagli americani, un generale israeliano scrive sul Guardian, titolando: “Una necessaria dimostrazione di forza”. [...]




Fonte: Counter Punch

Traduzione: Anacronista





1 commento:

  1. c'è un forte bisogno di lupi nel mondo perchè i pastori e i loro cani stanno portando il gregge al massacro, nemmeno i pastori sanno e capiscono il destino a cui sono legati dal grande inganno, è destino che pochi comprendano e che questi disarticolino progressivamente il male, il gregge resterà tale ma il mondo sarà un posto migliore
    http://www.youtube.com/watch?v=0YvS6EDjgbM
    jj

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